Ho vissuto la tua morte - Giunti 1997

Tutto si svolge tra il 21/4/1972, il giorno della diagnosi di tumore cerebrale, ed il 26/8/1973, il giorno della morte di Carl. In questa testimonianza la moglie, per cercare di accettare e di capire la morte, ricostruisce attraverso pagine di diario e ricordi tutto ciò che è avvenuto.

 

La rabbia iniziale, la difficoltà di essere accanto a lui, lasciandolo però libero di decidere ed agire come desidera e, nello stesso tempo, il bisogno di proteggerlo, anche se in più occasioni si accorge che in realtà Carl è “molto più avanti di lei”.

E la paura, una paura che diventa una compagna costante.

La difficoltà ad intendersi ed ad affidarsi ai medici e nello stesso tempo la stima che sorge nei loro confronti, il riconoscimento di quanto in più occasioni abbiano saputo ascoltare e interpretare il desiderio del malato, ma anche il gelo paralizzante di quando intuisce ciò che c’è dietro alle parole che con garbo le stanno dicendo.

 

 

Ricorda anche il profondo turbamento quando i medici le chiedono, almeno nelle fasi iniziali, di non dire a Carl la verità fino in fondo, perché consapevole che loro si erano sempre promessi di essere veritieri l’un l’altra ed ora le sembra di essere bugiarda e di sottrarsi a questo impegno. Alla fine accetta di parlargli quando lui dimostrerà di voler sapere, ma si accorge che per sei mesi entrambi hanno vissuto nella solitudine, portando ciascuno il proprio fardello.

Il carico delle decisioni pratiche e l’organizzazione della casa, la fatica di mantenere il proprio lavoro, accanto alla consapevolezza che dal momento della diagnosi in poi ormai combattano su fronti diversi, sono per la prima volta separati, lei ad aiutarlo a morire il meglio possibile e lui a vivere.

Peggio ancora la ferita di vedere come il marito, amabile con tutti, la respinge, non la guarda, preferisce gli altri; perciò deve imparare a fare i conti con una gelosia sconosciuta nei confronti delle operatrici sanitarie. Deve continuamente a misurarsi con una malattia che a poco a poco paralizza parti del corpo o funzioni quali la parola o l’udito, e trovandosi accanto talora al compagno della sua vita, tenero, ironico, forte, ma talora ad un bambino indifeso che la costringe al ruolo di mamma.

È stata costretta ad accettare i suoi limiti dato che non può reggere all’infinito la fatica, l’ansia, l’insonnia, l’accudimento; deve imparare a cedere, a delegare, ma anche a vivere alla giornata, lasciando andare ciò che fino a ieri è stato il meglio e senza farsi travolgere dalla prospettiva del peggioramento futuro. Un duro equilibrio che continua a costruire e a perdere anche perché nel frattempo il deterioramento fisico procede, e le convulsioni si intensificano.

La responsabilità di gestire l’informazione ed il coinvolgimento dei figli è stata anch’essa fonte di difficoltà. Proteggerli e lasciarli fuori dal carico della quotidianità, e nello stesso tempo privare sia loro che il loro padre malato di una relazione secondo le loro modalità.

Ancora una volta l’arrendersi, dopo le proprie battaglie interiori, ad una scelta di condivisione ha rivelato che tutto è più semplice e umanamente appagante di quanto paventato.

Difficile è stato vivere nell’incertezza se era la malattia o il farmaco a provocare determinati sintomi, aspettare impotente che la situazione clinica si chiarisse. Ma c’è stata anche la gioia di rendere possibile un fine settimana nella casa di campagna, le uscite in carrozzina, le visite di o ad amici; fare in modo che, nonostante tutto, la vita fosse il più normale possibile, almeno nei periodi di remissione, e abbandonarsi a sprazzi di speranza per poi ripiombare nella consapevolezza della terminalità; perseverare perché Carl mantenesse la massima autonomia, controllandosi di non fare alcunché che lui stesso potesse fare da solo, per non farlo sentire invalido.

 

Infine, accettare l’inevitabile, che anche la chemioterapia che aveva prolungato per un po’ la vita di Carl, e per questo lui, da quel lottatore che era, l’aveva accettata, non fa più effetto. Accettare che si ritiri un po’ alla volta dalla vita, che inizi a salutare luoghi e persone e che, coerentemente alle sue reiterata richiesta: niente macchine, decida di andare a morire in ospedale facendo l’unica cosa che poteva fare: rifiutare i farmaci. Ed alla fine assistere all’ultimo strazio: “lui voleva morire ma il suo corpo non lo lasciava andare” avendo il coraggio di continuare a rifiutare per lui l’alimentazione artificiale, la tenda a ossigeno, gli antibiotici.

 

Quanti momenti cruciali, decisioni faticose, tormenti interiori, sono gli innumerevoli spunti per cui vale la pena di leggere e condividere la profonda umanità che scaturisce dalle parole di questa donna che rivive e cerca di capire cosa sia accompagnare alla morte il proprio marito.

 

 

 

Gerda Lerner (Vienna 1920) di origini ebraiche per sfuggire alla persecuzione nazista si rifugia negli Stati Uniti nel 1939. Dopo il matrimonio ed i due figli riprende gli studi e si laurea alla Columbia University. È una delle fondatrici della Storia delle donne; ha insegnato all’Università del Wisconsin a Madison ed è stata presidente dell’Organizzazione degli storici americani. Tra le sue pubblicazioni: Le donne nere nell’America bianca; La creazione del patriarcato; La creazione della coscienza femminista. Ha pubblicato anche racconti, un romanzo e una sceneggiatura.

 

 

Editore: Giunti

Collana: Astrea

Pagine: 125

Prezzo: 2,00 euro

Anno prima edizione: 1997

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