Il cammino di Walter e Barbara

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Ci sono momenti nella vita in cui tutto risponde alle tue aspettative, ai tuoi sogni, e in quei momenti sei così concentrato su ciò che stai realizzando che niente potrebbe distrarti. Sono i momenti in cui i progetti si stanno concretizzando, è il momento in cui ti senti all’apice della vita, a 33 anni con un bimbo in arrivo, ti senti onnipotente. Il tempo non è mai abbastanza, la frenesia dei giorni è scandita dagli impegni lavorativi, gli appuntamenti, le spese per chi tra poco arriverà.

Questo era il momento che Walter e io stavamo vivendo, immersi nel nostro mondo, in cui tutto rispondeva perfettamente ai calcoli ingegneristici di mio marito. La famiglia che finalmente avrebbe accolto il suo primo bimbo, un lavoro in ascesa, una casa nuova da arredare e far diventare nostra. In questo e non in un altro momento, era difficile concentrasi sui sintomi di stanchezza di Walter, persino sui quegli accenni di lividi comparsi sulla gamba, era impossibile che il nostro progetto di vita avrebbe potuto scontrarsi con un limite, e invece il nostro limite ha avuto un nome chiaro fin da subito “LEUCEMIA PROMIELOCITICA”. La diagnosi immediata. La cura anche.
...Da subito si è parlato di chemioterapia, era la prima volta che da vicino sentivo il suono “forte” e “spaventoso” di questa parola e, davanti alle nostre proteste che ci volevano insieme a casa, ad aspettare il lieto evento della nascita di nostro foglio, le parole dei medici del pronto soccorso hanno risuonato per tempo dentro di noi: spiegavano infatti a Walter che la sua vita stava cambiando. I suoi calcoli ora dovevano lasciare spazio alla fiducia nella medicina, lasciare spazio a nuovi tempi, altri tempi. Quei tempi di attesa che hanno poi scandito le nostre giornate, tra il risultato di un esame e l’altro.

 

La malattia di Walter gli ha comunque permesso di esserci alla nascita di Andrea e nonostante i ricoveri in ospedale per i cicli di chemioterapia previsti dal protocollo, i primi mesi dopo la diagnosi li abbiamo vissuti con la certezza che tutto sarebbe tornato come prima, era solo una parentesi, che avremmo dimenticato, o forse chiuso in un cassetto. Le nostre famiglie, i nostri amici erano vicini, Andrea stava crescendo, gli esami andavano bene, si parlava di remissione della malattia, quindi per noi tutto stava nuovamente rispondendo ai nostri progetti…

 

 Che la parola remissione non significa guarigione l’ho capito il giorno in cui alcune cellule tumorali sono risultate ancora presenti nel midollo spinale che, come si dice in gergo, era risultato positivo all’esame del midollo molecolare. La malattia insomma c’era ancora. L’interpretazione di questo dato, è stata vissuta da entrambi come una “sconfitta momentanea”, ci siamo aggrappati all’idea che bisognava solo faticare un po’ ma che alla fine, tutto sarebbe tornato come prima. Non ricordo panico o un’angoscia insostenibile in quel momento, il sentimento che ci accumunava era la confusione, il disorientamento.

Come poteva essere tornata la malattia? Walter era stato “bravo”, si era sottoposto ad ogni terapia, attento a ciò che mangiava, attento a frequentare ambienti poco affollati, avevamo persino fatto igienizzare la casa da un’impresa di pulizie per rendere gli ambienti più adatti alle difese immunitarie scarse di quei momenti. Forse avevamo sbagliato qualcosa? Remissione non è guarigione ...adesso ci era chiaro, ci eravamo illusi, avevamo voluto chiudere troppo in fretta la partita. La leucemia ci stava riportando al punto di partenza, più consapevoli della strada che avremmo dovuto percorrere. Ma in campo ematologico molte, fortunatamente, sono le strade che si possono intraprendere prima di darsi per vinti. Le rassicurazioni dei medici e la possibilità di “curare” definitivamente queste cellule malate “cambiandole” con cellule sane attraverso il trapianto di midollo, ci dava una prospettiva di guarigione importante.

 

La difficoltà era reperire un donatore compatibile. Dapprima si cerca tra i familiari e mia cognata fu la prima e sola a sottoporsi agli screening per la compatibilità. Risultò compatibile e quindi la donatrice ideale, come familiare in linea diretta. Questo risultato ci portò a festeggiare, uscimmo a cena, noi due lasciando Andrea con i nonni. Avevamo ragione noi, la strada era solo più lunga, ci stava davvero mettendo alla prova. Stavamo cominciando a capire che non saremmo tornati alla vita di prima, che tanta angoscia, tanta paura condivisa ci stava trasformando. Nella mia testa si delineava un prima e un dopo la malattia. Una netta linea di demarcazione che divideva eventi e fatti, ma soprattutto ci vedeva cresciuti, cambiati e meno spensierati.

 

 

Walter stava mettendo in discussione il suo modo di concepire la vita, il controllo che aveva sempre utilizzato nelle occasioni che gli si erano presentate, il suo stile di pensiero razionale e determinato a non farsi scrollare troppo dalle emozioni, stava “cedendo”. Entrambi stavamo staccandoci dalle “nostre” sicurezze per lasciarci trasportare da un’emotività sempre più forte. Che dipingeva risultati e prognosi secondo il nostro volere. La nostra emotività riusciva a farci credere, sempre, che in qualunque modo noi ne saremmo usciti insieme, vivi, da questo percorso. L’idea della morte veniva automaticamente cancellata dal nostro bisogno di speranza, di voglia di continuare a dare voce ai nostri progetti, insieme! IL TRAPIANTO AVEVA DATO DAPPRIMA I RISULTATI SPERATI, per ritrovarci poi a dover fare i conti con una nuova recidiva, impietosa e decisamente meno sostenibile per Walter, e per tutti noi che stavamo condividendo il suo percorso terapeutico e umano.

La malattia in alcuni rari casi può arrivare a metastatizzare in zona meningea, la percentuale è rara, ma noi a quel punto facevamo parte di quella esigua percentuale. Gli sguardi che accompagnavano le parole dei medici che ci spiegavano cosa stava accadendo, stavano cambiando. Le parole di conforto, che io avevo  sempre letto come la certezza di una guarigione, non avevano lo stesso tono, le sfumature si notano subito, in certe situazioni! Da quel momento e per tutti i 10 mesi successivi, la malattia ha fatto nel corpo di Walter solo di “testa sua”, non c’era quasi più nulla che corrispondesse a ciò che i protocolli enunciavano. I medici li sentivamo spiazzati, in balia degli eventi, sembrava avessero ormai limitato il loro vocabolario, nella comunicazione con noi alle parole “vedremo”...“bisogna aspettare”…“non ci sono casi simili”.

 

In quei mesi ho urlato con tutti i camici bianchi che ho incontrato nei corridoi del reparto, chiesto mille chiarificazioni, posto dubbi e cercato conferme, non ho avuto risposte rassicuranti, ma nemmeno indicazioni certe sulla prognosi, che invece era ormai probabilmente “scontata” per tutti. In questi momenti ti puoi aggrappare a tutto, basta un piccolo segno positivo nell’ultimo emocromo, per ritornare ad avere un po’ di fiducia, e più gli esami continuano, più si alimenta la speranza. Contavamo, ad ogni rachicentesi, le cellule che ancora si annidavano nel liquor e quando diminuivano, si respirava una parvenza di “futuro”. La tua testa sa che gli esami non servono più per fare una diagnosi, in questi casi si parla di “semplice controllo della malattia”, ma fuori del controllo della ragione la mente fantastica su nuove cure, su azioni parallele, su terapie sperimentali.

 

Beh, le ultime “fantasie” sulla guarigione di Walter si sono scontrate, ancora una volta in modo violento e brutale il 27 settembre 2010, con la telefonata dall’ospedale, dove mio marito si era recato per gli esami di routine, per dirmi che lo avrebbero trattenuto, perché la risonanza magnetica, anche se di non facile interpretazione, confermava le preoccupazioni dei giorni precedenti per quel parlare rallentato. Sentire la sua confusione cognitiva, la sua fatica ad esprimere il più elementare concetto, mi ha portato senza riserve a comprendere che il “mio Walter”, l’ingegnere che ho sempre ammirato per la sua cultura, la sua intelligenza, il suo sapere, stava lasciando il posto ad un ragazzo “malato”. La malattia adesso la vedevo chiaramente, non riuscivo a trovare un appiglio, una speranza, WALTER era ammalato gravemente, non saremmo mai tornati indietro da quella situazione.

Le terapie, il trapianto di midollo, erano stati insufficienti per “affrontare” la leucemia. Quella leucemia guaribile nel 80% dei casi, si stava “portando” via la parte più importante di mio marito, la sua facoltà cognitiva, la sua capacità di controllo, la sua incredibile razionalità. In quei giorni mi si restituiva l’immagine di Walter come io non l’avevo mai vista fino a quel momento, un’immagine che non mi piaceva, che avrei voluto rifiutare…

 

 

Gli ultimi mesi ci hanno provato nel corpo e soprattutto nel cuore.

Walter dopo un ricovero in ospedale  era rientrato a casa, settimane a casa dei suoi genitori, perché la nostra non era attrezzata e lui necessitava di assistenza costante. Quelle settimane sono state le più difficili, passava dal rifiuto alla ricerca di me e di nostro figlio, aveva momenti di forte aggressività dovuti alla malattia che lentamente stava invadendo la sua mente e il suo corpo. Era una continua mediazione tra chi stava intorno, l’ambiente, gli amici che ormai non voleva più “vedere” e che spesso, come noi familiari, faticavano a comprendere le nuove “esigenze” di Walter, il suo bisogno di solitudine.

 

La personalità di mio marito è sempre stata complessa ma molto “forte”, aveva una grande carisma che tutti gli hanno sempre riconosciuto, quindi le relazioni nella sua vita sono sempre state significative e importanti, a questo punto stava invece chiudendo ogni contatto con il mondo esterno, allontanandosi prima di tutto da me e da Andrea. Credo che Walter abbia scelto un allontanamento “affettivo” già in quei giorni di settembre, in cui primo fra tutti, aveva compreso il punto di non ritorno a cui era arrivata la malattia.

 

 

Ho “perso” Walter in quei giorni, in cui si è congedato da me e da Andrea... è stato quello il momento del vero e reale...“lutto”. Non avrei mai pensato di dover ricorrere nella mia testa a pensieri così difficili, la paura della morte annunciata che ormai era chiaramente visibile, si mischiava alla stanchezza. L’altalena di “accettazione e rifiuto” a cui si susseguivano momenti di interminabili silenzi, stava minando tutto il nostro contesto familiare.
La pressione psicologica di… attesa della “morte” non mi permetteva più di rimanere accanto a Walter, in modo equilibrato ed emotivamente stabile. Scoppiavo in pianti interminabili, dimenticavo le cose più banali, temevo che avrebbe potuto “peggiorare” da un momento all’altro, e sentivo di non avere più gli strumenti per poterlo “aiutare”… così grazie ad un’amica che opera nel campo delle cure palliative ho incontrato la realtà dell’HOSPICE.

Il primo incontro con la struttura e la sua dirigente, mi hanno sconvolta e la rabbia per l’ingiustizia che stavamo vivendo aumentava man mano che la persona che aveva il compito di accompagnarmi alla conoscenza della struttura, forniva informazioni. I miei quesiti rimanevano su una linea differente, io ponevo domande sugli esami diagnostici, sulle terapie che avrebbero “rimesso in piedi” Walter, dall’altra parte si prospettava una realtà fatta di accudimento, di accompagnamento agli ultimi  giorni di vita di mio marito, in un’ottica di “centralità” della persona, con i suoi diritti che presumevano anche un allontanamento, se richiesto dal paziente, dai familiari, interrompendo le relazioni affettive, quindi anche la relazione, la comunicazione con me.

 

Le sensazioni che ho provato uscendo dall’hospice sono state diverse, ma tutte molti forti. Da un lato sapevo che eravamo arrivati ad un punto in cui avevamo bisogno di aiuto, di medici, ma non solo di un ambiente che ci aiutasse ad accompagnare Walter al meglio, dall’altra era difficile far arrivare dalle orecchie al cuore la verità, sulle sue condizioni. La mia scarsissima conoscenza del mondo delle cure palliative, e il “senso di colpa” legato a ciò che poteva essere vissuto come un abbandono da parte di Walter, mi avevano lasciato molti dubbi e tante paure.

Ma in questa nostra storia, la malattia e i suoi sintomi hanno deciso per noi ancora una volta, e dopo il Natale più difficile di questo percorso insieme, il 26 dicembre a seguito di una  discussione, in cui era uscito tutto il dolore e la fatica degli ultimi mesi, Walter in uno stato di grande sofferenza “psicologica”, aveva chiesto di allontanarsi da me, dalla sua famiglia, dal “nostro mondo” che forse davvero, era diventato troppo faticoso da “condividere”. Io non capivo il suo “ritiro” affettivo e ogni volta forzavo parole e pensieri che desideravo ancora “sentire”, io cercavo la normalità, pur consapevole che la nostra realtà, di normale non aveva più nulla. È cominciato con uno strappo affettivo, da me, prima di tutto, il suo inserimento in hospice.

 

I primi giorni Walter si relazionava poco con gli operatori sanitari, aveva scelto il suo punto di riferimento in struttura, la sua “dottoressa” con la quale aveva minimamente stabilito un dialogo, che comprendeva anche la richiesta di “allontanarsi” da me. Richiesta concretizzata in un deciso rifiuto a “vedermi, parlarmi al telefono”. Sono stati giorni difficili, mi appostavo per tempi che mi sembravano interminabili seduta sui divanetti della sala dell’hospice, attendendo un cenno dagli infermieri, che con discrezione informavano mio marito della mia presenza. Chiedevo quotidianamente un incontro con la responsabile di struttura, la sua dottoressa e ogni volta ribadivo le mie esigenze, la mia fatica a comprendere questo allontanamento forzato…


 

I miei tempi non erano quelli di Walter, ci ho messo un po’ a capirlo e ad accettarlo. Quando finalmente ho aspettato senza forzare i suoi “cenni” di avvicinamento, è accaduto che attraverso una telefonata mi chiedesse di esserci nuovamente nella sua vita, ma secondo un nuovo disegno, che rispettasse le sue “diverse” esigenze. Ho capito che non potevo più decidere cosa era meglio per lui, dalla mia posizione di persona “sana”, potevo immaginare i suoi vissuti, ma non vivevo sulla mia pelle i cambiamenti che Walter aveva fatto suoi, e prima di me aveva accettato. Lui era lì, molto diverso dalla persona con la quale avevo condiviso 18 anni della mia vita, non potevo cercare ciò che non c’era più, ma imparare a “conoscere” meglio l’identità che la malattia aveva in parte trasformato. Non potevo chiedere a lui di condividere con me “pensieri” sul suo stato di salute, sulle paure che erano anticipatorie alla “morte” che sapeva, ne sono certa, sapeva essere lì ad attenderlo.

In hospice mio marito ha ritrovato la sua grande “forza”, ha ricominciato a interessarsi alla lettura, alla fotografia, come poteva, come gli era consentito farlo in quel momento della sua vita. Nella sua incredibile lucidità aveva anche pronosticato il tempo della sua morte, mai in modo diretto, ma attraverso frasi brevi e sferzanti. Si stava congedando da me, per ciò che lui era, un uomo orgoglioso e di grande intelligenza, senza pietismo e troppe lacrime. Credo che quel mese che ha anticipato la sua morte abbia reso il nostro legame indissolubile, perché potevamo continuare a volerci bene, andando oltre ogni paura, ogni preconcetto, nella nostra “nudità” di essere umani. Essere a contatto con la morte, in un ambiente in cui è consentito parlarne, viverla… ci ha liberato da tanti falsi tabù.

 

Ripeterò all’infinito che, seppur con immenso dolore per la conclusione della “storia di vita” di Walter, il suo percorso di malattia mi ha reso una persona diversa, mi sento “fortunata” per aver potuto attraversare il mondo della malattia oncologica. Dopo questa esperienza sono cambiati tutti i riferimenti valoriali, sono cambiate le priorità, il mio modo di vedere e sentire gli altri. Oggi mi autorizzo ad essere felice, senza troppe “costruzioni mentali”, mi autorizzo a scegliere con chi condividere realmente la mia vita. Sento di essere un passo avanti, che è quasi inspiegabile la “serenità” di oggi, se paragonata alla “fatica” di ieri, alle maschere che inevitabilmente il pre malattia mi aveva chiesto di vestire, per sentirmi “adattabile” al mondo.


 

La morte è l’unica certezza che abbiamo da quando nasciamo, eppure passiamo la vita a combattere quest’idea, io non voglio più che la “morte”  sia qualcosa al di fuori di me, ma dentro il mio percorso di vita. Non voglio che altri come me, come noi, possano sentire il peso dello sguardo che allontana la malattia, che si spaventa davanti alla parola hospice.

 

Cercherò di dare un senso al percorso condiviso con Walter, promuovendo la cultura delle cure palliative, non come “fine vita”, ma accompagnamento a una “nuova prospettiva di vita, che sia di una settimana o 1 mese”.

 

...questa è la storia di Walter e la mia…

Per sempre