Dovevo partire per l'Australia da lì a pochi giorni...

Io la malattia della mamma l’ho scoperta per caso, per curiosità, per paura.

Dovevo partire per l’Australia di lì a pochi giorni, ed ero a casa da scuola. Uno o due pomeriggi sono venute delle amiche della mamma. Parlavano, e ricordo una volta la comparsa di una radiografia. Ho pensato che c’era qualcosa che non andava. Era strano che ci fossero amici dei genitori nei pomeriggi.

 

Una radiografia.

Una volta, senza nessuno nei paraggi, io ho aperto la busta del medico e ho letto il referto: adenocarcinoma al polmone sinistro. Non sapevo esattamente cosa fosse un adenocarcinoma, ma il suono di quella parola era univoco: cancro.

Non sono bastate le rassicurazioni di Giulia, né la menzogna, a fin di bene, di papà all’aeroporto – la mamma è stanca per le analisi, non sanno ancora cosa sia – ,  sono partita comunque che avevo paura.

Io ho vissuto la prima parte della malattia della mamma, forse una delle più difficili per tutti, lontano, al di là del mondo, via e-mail e telefonate.

 

Ci sono parecchi passaggi che, con il tempo, credo di aver rimosso. Le giornate di vita quotidiana in cui la mamma stava bene erano intervallate dalla debolezza dei giorni che seguivano le chemio. C’erano le analisi da fare regolarmente, e io percepivo solo diagnosi taciute a voce, forse, ma visibili negli occhi dei genitori dopo le visite mediche.

Alla fine del 2004 la mamma è stata operata. Io so che l’operazione è andata bene. E so anche che mia mamma è stata forte, che è la sua forza che l’ha aiutata a superare, ancora una volta, un momento difficile. Alzarsi dal letto, imporsi di camminare in reparto per riprendere mobilità il più in fretta possibile, cercare di tornare il prima possibile alla vita quotidiana, in casa con noi. Questo era quello che io vedevo. La mamma voleva tornare da noi.

 

Nel frattempo, io ho scelto cosa studiare all’università. Biotecnologie mediche sarebbe stata la scelta perfetta, mi dicevo. Volevo fare ricerca biomedica. Sapevo che avrei dovuto affrontare argomenti che erano strettamente inerenti alla malattia della mamma, ma sapevo anche che l’approccio dal punto di vista scientifico, razionale, mi avrebbe aiutato ad attutire la pressione emotiva.

Ci credevo, così ingenuamente, al primo, e pure al secondo anno, che la cura era veramente vicina. E studiavo sperando che forse, un giorno, avrei contribuito anche solo per un centesimo, un millesimo, a una scoperta che poteva salvare la vita di qualcuno come la scoperta di un altro aveva salvato la vita di mia mamma.

È arrivato poi, con gli anni, il momento in cui era innegabile che il tumore non rispondeva più alle cure che i medici pensavano. Si era cercato di attaccarlo da tutti i fronti. Dopo le chemioterapie per infusione, c’era stata la chirurgia, la radioterapia, le chemioterapie orali, le immunoterapie.

La seconda metà del 2008 è stata in continuo declino.

Eravamo al mare e si avvicinava il compleanno dei 50 anni della mamma. Ricordo che sorrideva e sembrava contenta. Eravamo in famiglia, allargata, con gli amici più cari. Era una cena all’aperto, e si stava così bene. E un paio di giorni dopo quel compleanno, era sdraiata su un divano e il dolore era oltre la soglia dell’immaginabile, credo. Siamo tornati a Milano immediatamente, ed è stato necessario cominciare una terapia a base di morfina e altri oppioidi.

Sapevo cosa significava. Un antidolorifico di quel tipo indica che la malattia è avanzata, molto aggressiva, infatti oramai sulla causa non si poteva più agire.

I genitori poi hanno anche chiarito chela mamma aveva deciso di non farsi più curare. Nessuno ha mai detto: non ci sono più cure. Ma penso che la mamma non avrebbe mai smesso di crederci e di provarci, a farsi curare, a meno che non ci fosse più nulla in cui credere e niente più da provare.

Progressivamente, ma non lentamente, la mamma ha perso la possibilità di camminare, abbiamo cercato di adattare un po’ la casa alle esigenze, in modo che si potesse muovere anche da sola sulla sedia a rotelle. Ma dipendeva comunque dagli altri. Da chiunque avesse la forza di sollevarla dal letto e metterla sulla carrozzina e viceversa.

Ha dedicato quel periodo ad abbellire le nostre vite e la nostra casa, cucendo e ricamando, asciugamani, tovaglioli, pannelli con le lettere per un asilo, piccoli cuscini con i numeri. E lentamente metteva in ordine anche i fili delle nostre vite. Puntava l’ago nella direzione giusta e ricamava un pezzetto di strada, uno in più, per guidarci anche quando non ci sarebbe stata.

 

Ricordo errori stupidi che venivano ingigantiti, questioni che diventavano colossali, situazioni in cui ci veniva detto che non capivamo che cosa le stava succedendo, in cui si chiedeva ad alta voce come sarebbe andata avanti la casa senza di lei, che noi non ci rendevamo conto. Ricordo di averle risposto una volta, urlando e in lacrime, che non era vero che non ce ne rendevamo conto. Che un errore era un errore, che potevamo averlo commesso per distrazione, per ignoranza. Ma che questo non significava che non comprendessimo la portata della situazione.

Avevo sbagliato. Da quella volta, comunque, ogni cosa che facevo, o dicevo, temevo potesse ferirla. E ho cercato di trattenere le reazioni emotive che avevo la certezza che l’avrebbero ferita.

Perché ti dici che non puoi capire – ed è effettivamente così – il dolore di chi vede la propria vita spegnersi, con tanti progetti davanti, con dei desideri, con solo metà della vita alle spalle.

 

Ma ti chiedi comunque, se non è consentito, anche per te, soffrire per la perdita. Ti chiedi se forse non può esserci da parte sua un minimo di comprensione, visto che sei ancora giovane, inesperta, non puoi forse avere uno sconto? Forse puoi essere un po’ egoista e proteggerti da queste paure, e da questa tristezza che senti? E la risposta è no, che questo spazio non c’è davanti a lei. Non ci deve essere.

Per quello ci sono i tuoi amici, c’è la persona che ami, ci sono i fratelli, i cugini, la famiglia. Ma anche lì, devi selezionare con chi puoi aprirti, lasciarti andare, e con chi invece devi essere quello che ascolta, e lasciare parlare l’altro.

La mia emotività è decisamente retrocessa in quel periodo. E io, a vent’anni, ho ripreso l’abitudine dei bambini, di andare nel lettone dei genitori la mattina, appena alzati.

Siamo poi stati informati, un giorno, che la mamma aveva acconsentito a terminare la sua vita in una condizione di minor dolore possibile, con una minore interazione con il mondo. E che prima o poi l’avrebbero “portata via” da casa.

È accaduto a metà dicembre.

Ricordo il suo sorriso, prima di salire sull’ascensore, mentre era sul pianerottolo. Io, a differenza dei miei fratelli, non ho nemmeno avuto il coraggio di andare a vedere mia madre dopo che è morta. Forse volevo ricordarla con un sorriso e basta.

So solo che da lunedì 15, fino a due giorni dopo, il cielo era cupo e carico di pioggia e neve. Il 18 mattina c’era un sole splendente. E ho pensato che se il cielo poteva sorridere perché la mamma aveva smesso di soffrire, potevo farlo anch'io. Forse non sorridere, non subito, ma almeno essere serena, tersa e azzurra come quel perfetto cielo invernale.

Pensavo che saremmo stati dei sopravvissuti. Come dei naufraghi. Ma, a dirla tutta, in poco tempo ognuno ha ritrovato la forza – chi prima non l’aveva e fingeva, come me, se l’è costruita per davvero. Quindi adesso, a distanza di due anni e qualche mese, credo fermamente di non essere una sopravvissuta. Ma invece di aver trovato, nei miei interessi, nella mia famiglia, negli affetti, qualcosa che mi ha indicato una via.

Non un naufrago alla deriva, ma un marinaio di veliero, con una meta e con delle monete in tasca che non scambi con nulla per il loro valore inestimabile.

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